SCRITTORI E GUSTO URBANO FRA SETTECENTO E OTTOCENTO
di: Francesco Iengo a cura di Mario Della Penna
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Capitolo VI (I parte)

DAL "PUNTO DI VISTA" SETTECENTESCO AL "PANORAMA" ROMANTICO

Scrive Giovanni Macchia a proposito di Montesquieu osservatore di città:

«Montesquieu osserva prima la città dall'alto. Quando giunge in una città, si situa sul campanile più alto, o sulla più alta torre, per vedere le tout ensemble, prima di distinguerne le parti. Quando la abbandona, ritorna sullo stesso campanile, per ben fissare le proprie idee. Tutto ciò che vien dopo, nella mobilità dell'analisi, degli umori e dei colori, è reso possibile, è condizionato, è misurato da quell'immagine di una città fuori del tempo, fuori del quotidiano, in un'esattezza geometrica, nel suo centro e nelle sue linee che si svolgono, a raggiungere la campagna, i campi. E' l'applicazione di un sistema» (114).

Le parole-chiave di questo passo - "idee", "misura", "esattezza geometrica", "centro", "linee", "sistema" - chiariscono alla perfezione il significato dell'operazione di Montesquieu, che consiste nel tradurre tutto in geometria.

Perciò è anche giustissimo dire che la città, che da quell'operazione deriva è una città "fuori del tempo e del quotidiano" - è, cioè, un'astrazione, da cui risultano rigorosamente espunti, sia, per esempio, il mutare dell'ora, dei mesi, delle stagioni, sia il colore.

Un sistema, dunque, frutto evidente di una cultura che va sempre più definendosi come antitesi della natura, d'un meccanico che sempre più si precisa in opposizione all'organico, d'una geometria, appunto, che sempre più ambisce ad emarginare (o almeno a circoscrivere) il caos.

E' un sistema, inoltre, che scaturisce dalla posizione di fatto d'un problema di omogeneità fra oggetto da osservare e modi di osservazione: se la città si definisce come qualcosa di sempre più costruito, altrettanto progressivamente costruita ("l'artefatta") occorre ne sia l'osservazione.

E difatti, tutte le descrizioni montesquieuviane di città dall'alto, saranno singolarmente, "scientificamente" laconiche. A Venezia, per esempio, Montesquieu sale sul campanile di San Marco e vede "la disposizione del Lido e di tutte le isole della laguna" (115): non una parola in più. A Genova abbraccia tutta la città dal giardino del principe Doria, trovando "incantevole" nemmeno il panorama, ma solo la posizione del giardino (116). A Roma, scopre nel convento dell'Ara Coeli un ennesimo luogo da cui si può vedere "tutta Roma comodamente", ma poi descrive il contiguo Campidoglio (117) piuttosto che la parte di Roma più immediatamente visibile, allora, dall'Ara Coeli (e cioè, niente di meno che il Foro Romano con le medievali torri delle Milizie, Colonna, Del Grillo, Conti e Capocci) (118).

C'è, poi, un altro modo relativamente innaturale, comunque "costruito" anch'esso, con cui sorprendere una città: arrivarci dal mare. Ma Montesquieu, anche in questo caso, non cambia atteggiamento: il suo sguardo si limita a geometrizzare. Di Genova, sorpresa dal mare, dice soltanto:

«La città vista dal mare è molto bella. Il mare penetra nella terra, e fa un arco, intorno al quale è la città di Genova». (119).

Napoli:

«La posizione di Napoli sul golfo è bellissima: è un anfiteatro sul mare, ma profondo». (120).

E tuttavia, stiamo parlando d'una singola personalità solo in apparenza (121). In realtà, il "sistema" di Montesquieu è comune ad un'intera cultura, che, per esempio, è anche quella di de Brosses. Come Montesquieu, de Brosses, quando arriva a Firenze, sale sul campanile di Giotto, e scopre che "gli Appennini, in prossimità di Firenze, si dividono in due braccia", mentre "la pianura forma una specie di golfo, in fondo al quale è situata la città" (122) - niente di più, come al solito.

Nè le cose cambiano quando il punto di vista è dal mare. A Napoli, in particolare, de Brosses instaura un parallelo con Genova:

«La posizione di Napoli e quella di Genova hanno molti punti in comune; tutt'è due si trovano in fondo ad una specie di golfo e si stendono a mezzaluna lungo la riva, contro una roccia. Io dico che quella di Genova è preferibile. Mi pare però che non sia l'opinione comune; ma vi giuro che per me è così. La ragione mi pare evidente. A Napoli c'era il posto per costruire la città tra il mare e il monte; di modo che la città è in un certo senso piatta, eccetto la Certosa e il Forte Sant'Elmo, situati in cima alla montagna. A Genova, invece, la base della roccia tocca quasi il mare; quindi sono stati costretti ad edificare a mezza costa tutto intorno, ad anfiteatro, la qual cosa, unita all'altezza straordinaria degli edifici, forma una veduta molto più bella. Provate ad arrivare per mare in queste due città, e sono sicuro che sarete del mio parere:ma, a parte questo, Napoli merita di essere preferita» (123).

Ciò che, oltretutto, colpisce in queste notazioni, e che le definisce dal punto di vista storico-culturale, è l'assenza assoluta vuoi, come detto, di qualsiasi riferimento all'ora, o alla stagione, in cui l'osservazione avviene, vuoi di qualsiasi allusione allo stato d'animo dell'osservatore in vista di quel determinato spettacolo: quello spettacolo non viene riferito a nient'altro di soggettivo che non sia un moto lievissimo di pure sensazioni (la coerenza del razionalismo settecentesco, è impressionante). E del resto, per quanto riguarda specificamente l'assenza di colore, che è un altro dei tratti distintivi di questo modo di guardare, essa troverà, alla fine del secolo, una teorizzazione riassuntiva nella Critica del giudizio di Kant:

«Nella pittura, nella scultura, e in tutte le arti figurative, l'architettura, il giardinaggio, in quanto sono arti belle, l'essenziale è il disegno, in cui ogni affermazione del gusto non riposa su ciò che diletta nella sensazione, ma su ciò che piace semplicemente per la sua forma. I colori, che avvivano il disegno, appartengono all'attrattiva: possono bensì ravvivare l'oggetto per la sensazione, ma non farlo degno dell'intuizione, e bello; sono, invece, quasi sempre molto limitati da ciò che esige la bella forma; ed anche dove si può fare una parte all'attrattiva, è sempre la forma che li nobilita» (124).


(114) Vedi la Prefazione a MONTESQUIEU, Viaggio in Italia, cit., pp. XV-XVI.

(115) Ibid. p.148.

(116) Ibid. p.41.

(117) Ibid. p.108.

(118) Dobbiamo questo elenco delle torri medievali visibili dall'Ara Coeli, a FERDINAND GREGOROVIUS, op. cit., vol. I, p.112.

(119) MONTESQUIEU, Viaggio in Italia, cit., p. 107.

(120) Ibid. p.295

(121) CESARE DE SETA (op. cit. pp.175 e 179) nota puntualmente che anche "Montaigne cerca il luogo più alto, quello che diverrà nell'Ottocento il belvedere, osserva la città nelle sue parti, valuta l'orientamento topografico dei vari quartieri e le determinazioni funzionali dell'organismo urbano: solo dopo aver fissata nella memoria l'immagine precisa si cala nella città...(Montesquieu, così adotta) una pratica del tutto simmetrica a quella già sperimentata dal signor de Montaigne".

(122) CHARLES DE BROSSES, op. cit., p.187.

(123) Ibid. p.246. Genova e Napoli viste dal mare formeranno un binomio ancora nel 1853, quando FERDINAND GREGOROVIUS (op. cit., vol. p.38) le nominerà insieme in rapporto a Palermo. Ma nel 1817, STENDHAL  (Rome, Naples et Florence, cit., p. 326) aveva scritto che "Naples est, sans comparaison, à mes yeux, la plus belle ville de l'univers. Il faut ne pas avoir le moindre sentiment des beautès de la nature pour oser lui comparer Gênes".

(124) IMMANUEL KANT, Critica del giudizio, trad. it. ALFREDO GARGIULO, riveduta da VALERIO VERRA, Bari, Laterza, 1960, pp.68-69


Theorèin - Ottobre 2006